VENEZIA.  Sguardo di donna è una mostra potente, che parla della cura delle relazioni, del rapporto con l’altro, dello sguardo sul mondo, a partire dal proprio senso di responsabilità. Un progetto ambizioso che rimarca come la fotografia negli ultimi decenni ha scelto di divenire una sorta di coscienza del mondo, facendosi testimone anche di quello che spesso viene occultato. In mostra a Casa Tre Oci [fino all’8 dicembre 2015] 25 autrici, 25 storie, 25 sguardi singolari sul mondo, sull’altro, sulla relazione, selezionando circa 250 lavori di Diane Arbus, Martina Bacigalupo, Yael Bartana, Letizia Battaglia, Margaret Bourke-White, Sophie Calle, Lisetta Carmi, Tacita Dean, Lucinda Devlin, Donna Ferrato, Giorgia Fiorio, Nan Goldin, Roni Horn, Zanele Muholi, Shirin Neshat, Yoko Ono, Catherine Opie, Bettina Rheims, Tracey Rose, Martha Rosler, Chiara Samugheo, Alessandra Sanguinetti, Sam Taylor-Johnson, Donata Wenders, Yelena Yemchuk.

 

 

MARTINA BACIGALUPO

 

Cerco di “rubare” alla natura un segreto che il tempo suo di epifania non mi permette di esplorare – ma che lo permette invece il tempo miracoloso della fotografia – che riceve le cose e le sospende, offrendoci il Tempo magico di guardare al di là del Tempo

 

MARTINA BACIGALUPO Walter and Benjamin (From the series Hito) 2005 © Martina Bacigalupo/Agence VU’, Paris
MARTINA BACIGALUPO
Walter and Benjamin (From the series Hito) 2005
© Martina Bacigalupo/Agence VU’, Paris

 

Hito è composta da fotografie rappresentanti coppie di gemelli identici e si presenta quale frutto di una lunga ricerca, fortemente mutata durante il percorso creativo. Bacigalupo è da sempre affascinata dalle sottili sfumature presenti nell’identità che caratterizza i gemelli omozigoti. All’inizio della carriera, realizza i suoi scatti cercando attraverso il mezzo fotografico piccole variazioni, dettagli: il neo o la fossetta sul mento che l’altro non ha, tutto ciò che all’interno dello stesso codice genetico attesta l’unicità dell’individuo. Cerca quel dettaglio che è chiamato sempre in causa, che è indicato come punto al quale prestare attenzione quando di continuo si è confusi per un altro, mentre si lotta per creare la propria identità. Nel corso degli anni la sua area di interesse cambia, pur restando all’interno dello stesso ambito di ricerca. Dopo l’esperienza in Burundi, Martina Bacigalupo capisce quanto sia fondamentale la presenza dell’“altro” dentro il processo affannoso di costruzione dell’identità, “l’altro” non come limite ma come opportunità da cogliere. Anche le sue immagini cambiano, i gemelli non hanno più una distanza fisica, vengono invece fotografati suggerendo un’idea di coppia siamese, indissolubile.

 

 

YELENA YEMCHUK

 

La fotografia mi permette di trattare temi assurdi, l’ambiguità e il non-senso come soggetti che sanno stuzzicare l’immaginazione o le contraddizioni folli della politica, del sociale, della vita stessa. Mi piace ritrarre tutti i personaggi come se ne vedono nei capolavori di Fellini

 

 

YELENA YEMCHUK Naomi and friend Coney Island (From the series Untitled Project) 1998 © Yelena Yemchuk
YELENA YEMCHUK
Naomi and friend Coney Island (From the series Untitled Project) 1998
© Yelena Yemchuk

 

 

Le immagini di Yelena Yemchuk sono immediatamente riconoscibili, indipendentemente dal soggetto che fotografa. La sua è una visione che ibrida una fantasia surreale e un romanticismo dark. Nella serie Untitled Project Yelena sembra scattare istintivamente, in bianco e nero, creando immagini che riguardano una forma di rappresentazione del sé: una sorta di “messa in posa” che il soggetto sceglie per se stesso, facendo diventare le fotografie quasi un’esperienza intima. Lo spirito malinconico dei suoi ritratti è tangibile in queste opere, in cui la fotografia viene scelta come metodo per comprendere la vita. La Yemchuk sceglie persone che la coinvolgono emotivamente, creando così immagini che evocano un mondo di interconnessioni, frontali, dichiarate, dirette.

 

DIANE ARBUS

 

Una fotografia è un segreto che parla di un segreto. Più essa racconta, meno è possibile conoscere

 

DIANE ARBUS Girl in her circus costume, MD, 1970 © The Estate of Diane Arbus LLC, courtesy M. & E. Woerdehoff von Graffenried, Paris
DIANE ARBUS Girl in her circus costume, MD, 1970
© The Estate of Diane Arbus LLC, courtesy M. & E. Woerdehoff von Graffenried, Paris

 

Ancora dodicenne, Diane Arbus prende lezioni di disegno da Dorothy Thompson, che oltre a lavorare come illustratrice è stata allieva di George Grosz. Questo primo incontro indiretto con Grosz segnerà Diane Arbus e influenzerà anche la sua produzione fotografica. Lavora per vent’anni con il marito Allan Arbus, fotografo che la introduce alla professione, collaborando con successo per importanti riviste di moda come «Glamour», «Harper’s Bazaar», «Seventeen» e «Vogue». Nel 1957 Diane capisce chiaramente di non essere più interessata alla fotografia di moda e sceglie di abbandonare lo studio che aveva fondato con il marito, per dedicarsi a scatti più reali e immediati. La giovane fotografa sembra quasi reagire contro le rassicuranti ma noiose convenzioni borghesi e, schierandosi apertamente contro ogni moralismo, inizia a esplorare i sobborghi poveri di New York, le spiagge di Coney Island, Central Park, le balere di Harlem e il circo delle pulci. In questi luoghi Diane incontra fame e miseria, ma soprattutto viene attratta dai cosiddetti freaks, i quali le si presentano come una sorta di mondo parallelo a quello che fino ad allora è stato per lei il mondo “normale”. Nel 1963 e nel 1966 Diane ottiene due borse di studio finanziate dalla fondazione Guggenheim e riesce così a pubblicare le sue foto su importanti giornali e riviste come il «New York Times» e il «Sunday Times» di Londra. È il 26 luglio del 1971 il giorno in cui Diane Arbus, incidendosi le vene dei polsi e ingerendo una forte dose di barbiturici, si toglie la vita. Un anno più tardi il MoMA le dedicherà un’importante retrospettiva, consacrandola definitivamente come una dei più importanti fotografi del secolo. Diane Arbus è la prima, tra i fotografi americani, a essere ospitata alla Biennale di Venezia, nel 1972.

 

LETIZIA BATTAGLIA

 

“La fotografia l’ho vissuta come documento, come interpretazione e tanto altro ancora. L’ho vissuta come acqua dentro la quale mi sono immersa, mi sono lavata e purificata. L’ho vissuta come salvezza e verità”

LETIZIA BATTAGLIA Omicidio sulla sedia, Palermo 1975 © Letizia Battaglia
LETIZIA BATTAGLIA
Omicidio sulla sedia, Palermo 1975
© Letizia Battaglia

 

 

Nel 1974 documenta l’inizio degli anni di piombo nella sua città, scattando foto dei delitti di mafia. Letizia Battaglia non è, ad ogni modo, solo la fotografa della mafia, le sue foto, spesso in bianco e nero, raccontano Palermo nella sua miseria e nel suo splendore: i suoi morti di mafia ma anche le sue tradizioni, gli sguardi di bambini e donne, i quartieri, le strade, le feste e i lutti, la vita quotidiana e i volti del potere di una città contraddittoria. Dal 1974 Battaglia fotografa dunque, giorno dopo giorno, i delitti mafiosi, documentando l’incedere della violenza. «Solo allora ho sentito che con le foto stavo documentando qualcosa di storico. Era una specie di guerra civile, pian piano è diventato tutto molto violento. Ci ho messo tutto l’impegno e la serietà possibile, perché sentivo di dover rispondere sia alle istanze del giornale che alle mie. Non bastava fotografare, bisognava farlo con rispetto, con partecipazione». Con le sue opere non solo ci mette di fronte all’orrore della morte, ma dà anche un volto al dolore di chi rimane: sguardi di donne che sono state madri, mogli, figlie, sorelle di uomini uccisi dalla guerra di mafia. Dopo le stragi del 1992 Letizia Battaglia decide però di smettere di fotografare morti: «Per anni ho fotografato cadaveri ma mai gli assassini. Non si conoscevano mai. Se si trattava di un omicidio normale, il killer veniva scoperto subito, ma nei delitti di mafia mai. Ci sentivamo umiliati, un popolo umiliato e schiacciato da questa tragedia».

MARGARET BOURKE-WHITE

 

 “[…] trovare qualcosa di nuovo, qualcosa che nessuno avrebbe potuto immaginare prima, qualcosa che solo tu puoi trovare perché, oltre ad essere fotografo, sei un essere umano un po’ speciale, capace di guardare in profondità dove altri tirerebbero dritto”

 

MARGARET BOURKE-WHITE At the time of the Louisville Flood, Louisville, Kentucky 1937 by Margaret Bourke-White © Time Inc. All rights reserved
MARGARET BOURKE-WHITE
At the time of the Louisville Flood, Louisville, Kentucky 1937
by Margaret Bourke-White
© Time Inc. All rights reserved

 

Nel 1928 decide di trasferirsi in Ohio dove apre uno studio fotografico, specializzandosi nella fotografia d’architettura, di design e industriale. A Cleveland ha numerosi clienti, tra cui le acciaierie Otis, da cui riceve ampio sostegno. Le sue fotografie degli altiforni, grazie alle astrazioni geometriche permesse dalle architetture industriali, ne fanno una delle fotografe più apprezzate anche nell’ambito della ricerca artistica. Si può considerare Bourke-White come la prima fotografa industriale di rilievo, nonché tra i primi fotografi a dare spessore artistico alla fotografia industriale. Per scattare sale sui cornicioni dei grattacieli più alti, sorvola città, si spinge nelle zone più pericolose degli stabilimenti. Nel 1929 ha inizio la sua collaborazione con la rivista «Fortune», e nel 1936 è chiamata da Henry Luce a far parte della redazione fotografica del nuovo rotocalco «Life»: sua è la prima copertina della rivista, una fotografia dell’imponente diga di Fort Peck nel Montana, a simboleggiare il New Deal rooseveltiano. Il suo obiettivo in questi anni è sempre più vicino all’emergenza sociale degli Stati Uniti: appartiene a lei ad esempio la celebre fotografia della fila di persone di colore, in attesa della distribuzione di un pasto, sovrastate dalla pubblicità di un’automobile con a bordo la tipica famiglia americana wasp e la frase «World’s highest standard of living».

 

 

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