“L’indagine del passato e la necessità di raffigurare un tempo dandogli corpo attraverso la fotografia caratterizzano la pratica artistica di Hiroshi Sugimoto sin dai suoi esordi. Riconoscere il mondo e restituirlo al nostro sguardo contemporaneo completato del senso e del valore di cui è andato arricchendosi nei secoli presuppone innanzitutto un lungo processo di elaborazione interiore, di riflessione, di insistenti domande che rivolgiamo a noi stessi e che muovono, tutte, dal bisogno di scoprire oltre che della sete di conoscenza. Scoprire, sperimentando, per capire”. E’ così che descrive il lavoro del celere fotografo giapponese, Filippo Maggia, curatore della mostra “Stop Time” in mostra a Modena, al Foro Boario, fino al 7 giugno. Un cammino artistico che è “un’incessante sfida alle potenzialità che la fotografia offre all’artista, come tecnica, linguaggio e strumento di interpretazione del mondo, specialmente se accompagnata ad un’altrettanto approfondita e accanita pratica di altre discipline, quali il design e l’architettura”.
In questo approccio così particolare sentire il tempo, che è anche il focus della mostra modenese (ma anche della ricerca di Sugimoto), “è regola fondamentale”.
E sempre sul tempo è lo stesso Sugimoto ad esprimersi. “La prima volta che ho riflettuto seriamente sul concetto del tempo ero alle elementari. Su un numero della rivista ‘Children’s Science’, a cui ero abbonato, lessi un articolato sulla luna corredato da un diagramma che ne mostrava la distanza dalla terra e spiegava come, persino alla velocità della luce, occorrevano alcuni secondi perché la luce dalla luna raggiungesse la terra. Ciò mi portò ad elaborare una mia particolare teoria: l’immagine della luna che vedevo io era in realtà quella dell’astro alcuni secondi prima; questo significava che se avessi posizionato un grande specchio sulla luna e contemplato la mia immagine riflessa in esso, quella che avrei visto era in realtà l’immagine di me stesso alcuni istanti prima. il passo successivo fu pensare di poter sfruttare il tempo che occorreva alla mia immagine per raggiungere la luna e tornare indietro sulla terra per costruire un secondo grande specchio sulla terra che avrebbe restituito tale immagine; il gioco di riflessione tra i due specchi avrebbe così preservato l’immagine di me bambino per l’eternità. Fantasticavo di trasferire lo specchio della luna sulla terra in modo tale che, quando fossi diventato un vecchio canuto, avrei potuto ogni tanto rivolgere una fugace occhiata alla mia immagine da bambino. Non mi ci volle molto per capire che la mia teoria avev una pecca […] eppure le mie fantasie infantili dimostrano ancora oggi quanto sia connaturato all’uomo il desiderio di arrestare lo scorrere del tempo”.
- © francesco gozzi
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- “Quando nel 1974 arrivai a New York per la prima volta, visitai molte attrazioni turistiche della città, tra le quali anche il Museo Americano di Storia Naturale. Feci una scoperta curiosa mentre osservavo l’esposizione dei diorami: gli animali impagliati post davanti ai fondali dipinti sembravano del tutto falsi, eppure, gettando lo sguardo con un occhio chiuso, ogni prospettiva svaniva e improvvisamente le scene sembravano molto reali. Avevo trovato il modo di vedere il mondo come lo vede la macchina fotografica. Per quanto sia finto il soggetto, una volta fotografato è come se fosse vero”. © francesco gozzi
- La serie Dioramas (1976-2012) si interroga sul linguaggio fotografico, indagando il rapporto tra finzione e realtà, da sempre connaturato con questo mezzo espressivo. le rappresentazioni fittizie assumono nelle opere dell’artista un carattere di realtà, riuscendo così a realizzare un’opera impossibile: la storia fotografica dell’evoluzione del pianeta. © francesco gozzi
- Nella serie Seascapes (1980, in progress) i diversi mari e oceani del mondo vengono ripresi con l’intento di mostrare quel senso di eterno che è connaturato al mare. © francesco gozzi
- L’idea che finzione e realtà si confondano perfettamente nel lignaggio fotografico viene ripresa nella serie Portraits (1994-1999) in cui l’artista giapponese fotografa le statue di cera realizzate da Madame Tussaud. Le statue, raffiguranti personaggi famosi della Storia, vengono chiamate dall’artista “fotografie tridimensionali” perchè per la loro realizzazione vennero utilizzati, quando possibile, i calchi dei volti. © francesco gozzi
- “Cosa accade riprendendo un intero film in un solo fotogramma? Si ottiene uno schermo luminoso”. Partendo da questa idea Sugimoto realizza, a partire dal 1976, la serie Theatres che ritrae i testi americani anni Venti e Trenta, così come i Drive-In anni Cinquanta, per poi concentrarsi negli ultimi lavori sui teatri italiani. Le fotografie sono realizzate con lunghissimi tempi di esposizione, pari all’intera durata di proiezione di una pellicola su uno schermo posto sulla scena. Lo svolgersi del tempo risulta così racchiuso e mostrato in un soggolo fotogramma: un rettangolo bianco e luminoso al centro dell’immagine. © francesco gozzi
- La serie “Lightning Fields” (2006, in progress) nasce dal desiderio di ricreare e verificare coi propri occhi le maggiori scoperte scientifiche del XIX secolo relative a luce ed elettricità, fatte da scienziati pionieri del settore quali Benjamin Franklin, Faraday, Talbot, Abbey. Tali immagini sperimentali sono state realizzate senza l’utilizzo della macchina fotografica ma soltanto mediante l’uso di scariche elettriche indirizzate direttamente su pellicola. © francesco gozzi
- “Sono passati quasi 100 anni dall’inizio del movimento del modernismo in architettura. La modernità è diventata oggi tradizione. Seguendo il mio grande interesse per l’origine dell’architettura moderna, che ha cambiato ogni panorama urbano, ho fotografato queste strutture usando un punto focale teorico che io chiamo Twice as Infinity”. con queste parole l’artista commenta la realizzazione della serie Architecture (1997, in progress) in cui esplicita il suo interesse per l’architettura modernista e per gli edifici da essa prodotti. Le immagini che propone di tali monumenti risultano però sfocate, ottenute “raddoppiando il punto di infinito”. © francesco gozzi
- Al contrario delle tradizionali fotografie d’architettura che ricercano massima linearità e definizione, la sfocatura viene utilizzata da Sugimoto per suggerire un approccio evocativo, che dissolva i confini della memoria per andare alla ricerca della vera essenza dei luoghi rappresentati.In questo modo lo spettatore purifica la sua visione ormai consumata e corrotta di questi edifici celebri per produrne una nuova e inaspettata che resista al tempo. © francesco gozzi