Utilizzo la fotografia per raccontare vicende che non sono immediatamente visibili in superficie”. E’ così che il fotografo armeno-siriano Hrair Sarkissian racconta il modus operandi con cui realizza i suoi progetti fotografici, scenari reali o costruiti frutto dell’assemblaggio di più elementi combinati fra loro. Opere che fino al 21 febbraio saranno in mostra alla Fondazione Carispezia per “Back to the future”.

Qui 86 fotografie e un video che permettono di capire come Sarkissian opera la sua ricerca; una ricerca incentrata su temi dell’incertezza del futuro e di un’identità sociale, politica, religiosa e culturale da difendere e preservare e in cui applica la conoscenza del mezzo fotografico e delle sue potenzialità espressive a un processo di produzione di immagini che riconsidera i simboli della storia dell’Armenia, dell’Egitto e della Siria, del passato come del presente, invitando lo spettatore ad andare oltre l’immediatezza della fotografia che, da semplice documento, può assurgere al ruolo di testimone del tempo.

 

 

 

 

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Difendere l’identità. Un testo di Filippo Maggia

 

Hrair Sarkissian nasce a Damasco nel 1973. Originaria dell’est della Turchia, la sua famiglia, fuggita in seguito al genocidio degli Armeni del 1915, si rifugia in Siria stabilendosi nella capitale dove il padre, fotografo freelance sin dagli anni cinquanta, apre nel 1979 il primo laboratorio a colori del Paese, il Sarkissian Photo Center. Il negozio è il luogo dove Hrair Sarkissian cresce e dove si decide il suo destino: affascinato dal mondo delle immagini, per dodici anni assiste il padre apprendendo al contempo la tecnica di ripresa come quella di stampa, sino a quando decide di perfezionare gli studi anziché sviluppare l’attività commerciale. Si trasferisce così in Francia, ad Arles, e successivamente completa la sua formazione artistica alla Gerrit Rietveld Accademie di Amsterdam dove, nel 2010, si diploma in fotografia. Dal 2011 risiede a Londra, da cui muove per viaggi e residenze di periodi anche lunghi in Olanda e Giordania.

“Utilizzo la fotografia per raccontare vicende che non sono immediatamente visibili in superficie” dichiara Hrair Sarkissian introducendo il proprio lavoro. Vicende umane che una fotocamera analogica 4×5 in fase di ripresa e la stampa in grande formato contribuiscono a rendere percepibili a quanti vogliono capire cosa si nasconde oltre il supporto cartaceo, collocando il soggetto nel contesto storico cui appartiene.

Le piazze di Aleppo, Lattakia e Damasco, ritratte a colori nell’ambrata e pacifica luce mattutina, a un’analisi più approfondita si rivelano per i luoghi ove vengono effettuate esecuzioni pubbliche, periodicamente e solitamente proprio in quelle ore: solo in apparenza la bellezza e la quiete delle piazze coprono la brutalità e la violenza fisica che in esse vengono perpetuate.

“Execution Squares”, serie prodotta dall’artista armeno nel 2008, è il lavoro che ha portato Sarkissian all’attenzione della critica internazionale, esempio di calibrato amalgama fra un approccio di chiara matrice documentaristica, rigoroso e preciso, e un altrettanto cristallino “sentire” il paesaggio, che significa non solo saperlo leggere quanto restituirlo completo di sentimenti che ora hanno preso forma di colori, ricchi di toni e sfumature.

L’indagine di un territorio, di una città, di quanti lo popolano e di come lo vivono non può prescindere dallo studio delle istanze sociali, politiche, religiose e finanche culturali che definiscono luoghi e genti. Che siano reali o costruiti, gli scenari ripresi da Sarkissian sono comunque frutto dell’assemblaggio di più elementi combinati fra loro e, anche per questo, l’artista ricorre spesso alla serie che gli consente di evidenziare ora l’uno ora l’altro. Forte di una solida pratica fotografica che gli deriva dal lungo apprendistato nella bottega di famiglia, Sarkissian applica la conoscenza del mezzo e delle sue potenzialità espressive a un processo di produzione di immagini che riconsidera simboli della storia dell’Armenia, come dell’Egitto o della Siria, del passato come del presente, invitando lo spettatore ad andare oltre l’immediatezza della fotografia che, da semplice documento, può assurgere al ruolo di testimone del tempo.

I lavori presenti in mostra offrono una lettura pressoché esaustiva della ricerca dell’artista armeno-siriano. La serie “Zebiba” (2007) include 45 ritratti di musulmani osservanti egiziani che portano sul loro volto, come fosse una cicatrice, l’impronta della devozione e dell’atto della preghiera, provocata dal continuo inginocchiarsi e poggiare al tempo medesimo la fronte sulla Mussallah (Pietra di Dio). Nel tentativo di annullare la propria individualità di fronte a Dio, essi diventano, paradossalmente, riconoscibili nel contesto sociale in cui vivono. La presentazione voluta da Sarkissian, in forma di grande pannello ove tutti e 45 i volti guardano lo spettatore compatti e silenti, amplifica la solennità del gesto generando un sentimento di soggezione in colui che guarda.

Le 10 grandi fotografie che compongono la serie “Churches”, di cui ne vengono proposte 5 in mostra, sono state realizzate ad Amsterdam nel 2009, ove l’artista ha vissuto prima di trasferirsi a Londra. Le immagini sono dominate dal nero: gli spazi di luoghi sacri, dismessi e ora utilizzati per altre attività quali saloni di ricevimento piuttosto che discoteche, sono stati ripresi con l’ausilio della sola luce naturale, cercando così di restituire per quanto possibile l’atmosfera di sacralità che, nonostante il cambio di utilizzo, lo spazio ancora trattiene nella sua architettura originale.

Sarkissian insiste qui su uno dei temi a lui più cari: la necessità di ribadire la memoria di un luogo per quanto questo vada negli anni mutando forma, istanza ancora più delicata e profonda quando il soggetto è un’icona del passato sociale e politico dell’Armenia, come descritto nelle fotografie della serie “Underground”, eseguite sempre nel 2009, nella metropolitana di Yerevan costruita in epoca sovietica e di cui le dimensioni e l’ingiustificata imponenza sono chiare metafore di propaganda politica.

“Construction” introduce a un metodo di lavoro che vede la fotografia non più direttamente responsabile della rappresentazione di luoghi o genti ma mezzo utile alla lucida narrazione di un’esperienza che affonda le radici nella memoria intima e privata dell’artista. Composta da opere in piccolo formato prodotte nel 2010, la serie presenta 15 vedute affondate nel buio di strutture in legno assemblate partendo da pezzi di legno tutti identici fra loro. Frutto dell’immaginazione dell’artista nel tentativo di ricostruire il villaggio di origine della sua famiglia, nell’est della Turchia odierna, dal quale nel 1915 suo nonno fuggì per sottrarsi al genocidio e di cui tante volte aveva sentito parlare, queste fotografie rappresentano il tentativo di trasmettere frammenti di identità storica alle future generazioni, per quanto la forma adottata resti volutamente indefinita: modellini di un gioco che lo sfondo nero rende ancora più misteriosi.

In “Stand Still” (2009-2010), serie di 14 immagini in grande formato di palazzi abbandonati in fase di costruzione negli immediati dintorni di Damasco a seguito della depressione economica che sarebbe stata una delle cause, negli anni immediatamente successivi, dello scoppio della guerra  civile siriana, lo sguardo di Sarkissian è rivolto al paesaggio, indagato anche in altre sue opere seriali: “In Between” (2006), che è anche il primo lavoro dedicato all’Armenia, nel quale il fotografo di Damasco scopre la sua terra d’origine per quello che anni di occupazione sovietica l’hanno resa, con resti di armamenti abbandonati qua e là a seguito del conflitto con l’Azerbaigian per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh; “City Fabric”, che sembra completare proprio “Stand Still” del quale è infatti quasi contemporaneo, in cui Sarkissian presenta cartelloni pubblicitari di edifici residenziali e di lusso mai ultimati, questa volta a Yerevan.

Il tema dell’incertezza del futuro e di un’identità sociale, politica, religiosa e culturale da difendere e preservare, vanno procrastinandosi di generazione in generazione e come malattie ereditarie si trasmettono di padre in figlio, fantasmi che aleggiano e accompagnano l’intera produzione artistica di Sarkissian.

Temi affrontati e risolti con modalità fra loro differenti negli altri due lavori presenti in mostra: la serie fotografica “Sarkissian Photo Center and My Father & I” del 2010 e il video “Homesick” del 2014. Nel primo, l’intento dell’artista non è solo quello di celebrare l’attività commerciale che il padre, ormai settantacinquenne, chiude e che nessuno continuerà ad esercitare, ma soprattutto di rendere omaggio a un’esperienza cui riferirsi per comprendere la propria storia, sottolineata in modo efficace con i ritratti che Sarkissian figlio ritrova del padre e ai quali abbina i propri eseguiti ora dal padre: un vero e proprio passaggio di testimone che allude alla preziosità di un’attività artigiana divenuta vera arte in entrambi.

“Homesick” si presenta in forma di video a due canali, della durata di 11 e 7 minuti nei quali il modellino del palazzo di Damasco ove Sarkissian è cresciuto, e dove ancora vivono i genitori dell’artista, viene progressivamente distrutto. Nonostante l’aggravarsi della situazione siriana, come molti anziani ancora residenti nella capitale, anche i genitori dell’artista rifiutano di abbandonare l’appartamento, ritirata che sarebbe vissuta come una nuova fuga dopo l’esodo dall’Armenia. Al tempo medesimo Sarkissian non può tornare con la propria famiglia a Damasco, e dunque il congiungimento dei due nuclei familiari è inattuabile. Sarkissian si domanda quale futuro lo aspetta e cosa resterà di quella casa, immaginando, vista l’evoluzione del conflitto, un epilogo tragico. Ancora una volta, come il nonno, l’artista di origine armena sembra destinato a perdere i propri ricordi e con essi l’identità della famiglia, parte di una memoria collettiva unica e irriproducibile.