YAEL BARTANA

 

 “Ciò che davvero m’interessa è stimolare una riflessione sostanziale, anche a costo di uscire dal territorio dell’arte”

 

YAEL BARTANA The missing negatives of the Sonnenfeld Collection 2008 © Yael Bartana, courtesy Annet Gelink Gallery, Amsterdam and Galleria Raffaella Cortese, Milano
YAEL BARTANA
The missing negatives of the Sonnenfeld Collection 2008
© Yael Bartana, courtesy Annet Gelink Gallery, Amsterdam
and Galleria Raffaella Cortese, Milano

 

Yael Bartana si muove all’interno di uno degli aspetti più indagati e controversi della fotografia: la memoria. Contraddistinta da un forte legame con la sua madrepatria, Israele, utilizza da sempre diversi media visivi – tra cui film, installazioni e fotografie – come strumenti d’esplorazione atti a indagare l’immaginario politico e identitario della sua terra. Se la sua forte coscienza nazionale può essere considerata come punto di partenza della ricerca artistica, lo scopo del suo lavoro è quello di rintracciare, attraverso cerimonie e rituali pubblici, il significato implicito di termini come “patria”, “ritorno” e “appartenenza”, ognuno dei quali è fondamentale per la riaffermazione dell’identità collettiva dello stato-nazione di Israele. La serie Missing Negatives of the Sonnenfeld Collection (2008) è creata dall’artista mettendo insieme immagini fotografiche prelevate da differenti fonti archivistiche. Oltre a lavori personali dell’artista, la serie è composta da reportage fotografici appartenenti al Museo del popolo ebraico di Tel Aviv e alla collezione Sonnenfeld. I coniugi Leni e Herbert Sonnenfeld, tra il 1933 e il 1948, lasciata Berlino a causa dell’avvento del regime nazista, raccolgono numerosi reportage fotografici relativi alla formazione di comunità ebraiche di profughi, presenti in tutto il mondo: vanno così a creare quello che oggi si può considerare l’archivio fotografico più importante del popolo ebraico. Adottando lo stesso stile eroico, l’artista rimette in scena le fotografie originali, ritraendo agricoltori, operai e soldati belli e gioiosi, con l’aiuto di giovani arabi ed ebrei arabi, attualmente residenti in Israele. Costituisce così un “archivio ibrido”, in cui la forte commistione fra passato (in bianco e nero) e presente (a colori) mette perfettamente in risalto quella medesima voglia dei giovani discendenti di Abramo di costruire, sulle rovine di un sanguinoso passato, un nuovo e grandioso futuro.

 

 

SOPHIE CALLE

 

“Ho da sempre avuto l’impressione che le mie foto non potevano esistere da sole, le immaginavo all’interno di una struttura narrativa insieme alle parole. Lo stesso discorso si può fare per la scrittura. Le storie mi parevano povere senza le immagini e quindi utilizzare i due media era una conseguenza logica. In più mi piaceva fotografare e amavo scrivere”

 

 

SOPHIE CALLE Aujourd’hui ma mère est morte/My mother died today 2013 © Sophie Calle/ADAGP, Paris 2015, courtesy Galerie Perrotin, Paris
SOPHIE CALLE
Aujourd’hui ma mère est morte/My mother died today 2013
© Sophie Calle/ADAGP, Paris 2015, courtesy Galerie Perrotin, Paris

 

 

Sophie Calle si descrive come un’artista di narrativa: i suoi progetti, a metà strada tra la performance, la fotografia e la cronaca, vengono esposti come installazioni e spesso diventano libri. Per la mostra organizzata dopo aver ricevuto l’Hasselblad Award, sceglie le immagini e il testo di un progetto in corso, True Stories. In questa serie Sophie Calle crea una sorta di storia in cui testo e fotografia sono inscindibili, in coppia. Include nella serie, inoltre, il suo precedente lavoro The Husband; 10 Stories, che racconta il corso di una relazione; i titoli delle dieci storie ne scandiscono il percorso: The Resolution, The Hostage, The Argument, Amnesia, The Erection, The Rival, The Fake Marriage, The Break-up, The Divorce, The Other. La poetica di Calle si colloca proprio nello spazio stabilito tra fotografia e testo. Il suo concetto di realtà e finzione solleva altre domande circa l’identità delle persone. Chi siamo veramente, al di là di ciò che diciamo di essere, e chi sono gli altri? Stalker, spogliarellista, dormiente, spia: tutte le sue opere cercano di ricostruire l’intimità dall’esterno, attraverso minimi dettagli, e tramite queste opere Sophie Calle tenta di appropriarsi delle esperienze degli altri. Nei suoi lavori la linea di confine tra la vita e l’arte è confusa. All’interno del panorama delle arti visive, Calle è uno dei casi più interessanti dell’intreccio tra dimensione letteraria e fotografia, nel quale si può realizzare un’interessante reversibilità dei ruoli.

 

 

LISETTA CARMI

 

 “Una fotografia non è mai esistita nella mia testa prima dello scatto: io vedo ciò che c’è, vibro con ciò che c’è, amo ciò che c’è, mi emoziono vedendo ciò che c’è”

 

LISETTA CARMI Ezra Pound, Sant’Ambrogio di Rapallo 1966 © Lisetta Carmi
LISETTA CARMI
Ezra Pound, Sant’Ambrogio di Rapallo 1966
© Lisetta Carmi

 

Sono sue le più belle fotografie mai scattate a Ezra Pound. È l’11 febbraio 1966 quando il direttore dell’Ansa le chiede di accompagnarlo a Sant’Ambrogio, vicino a Rapallo, perché deve intervistare il poeta. Pound, vecchio e malato, reduce dai tredici anni di reclusione nel manicomio criminale di Saint Elisabeth, a Washington, abita una casa poverissima, con cassette della frutta come librerie e un lettuccio spoglio. Quando, dopo molto insistere e bussare, si presenta sulla soglia, Lisetta Carmi comincia a scattare. È spettinato, esangue, indossa una vestaglia e ciabatte che nascondono i piedi gonfi. Non parla, sono anni che ha smesso di parlare. Alle sue spalle il buio della stanza sembra risucchiarlo, i suoi occhi sono superbi e Lisetta, con la sua Laika, scatta venti fotografie in quattro minuti mentre l’intervistatore gli fa domande alle quali il poeta non risponde. Poi ne sceglie dieci che, secondo Umberto Eco, raccontano di Pound più di quanto sia mai stato scritto su di lui.

 

 

TACITA DEAN

 

“Niente è più spaventoso di non sapere dove stai andando, ma poi di nuovo nulla può essere più soddisfacente che constatare che siete arrivati da qualche parte senza un’idea chiara del percorso”

 

 

TACITA DEAN Teignmouth Electron, Cayman Brac (underneath) 1999 The artist’s collection © Tacita Dean courtesy the artist and Frith Street Gallery, London and Marian Goodman Gallery, New York/Paris
TACITA DEAN
Teignmouth Electron, Cayman Brac (underneath) 1999
The artist’s collection
© Tacita Dean courtesy the artist and Frith Street Gallery,
London and Marian Goodman Gallery, New York/Paris

 

Dal 1996 Tacita Dean inizia a lavorare a una serie di opere racchiuse sotto un unico titolo, Disappearance at Sea, ispirate a storie di incontri personali con il mare: un titolo che crea un insieme e genera uno spazio ideale e poetico dove far confluire tutte queste scomparse. Il lavoro Teignmouth Electron Series prende il nome da un’imbarcazione e racconta una di queste storie. Nel 1968 Donald Crowhurst partecipa alla Golden Globe Race; dopo poche settimane dalla partenza Crowhurst si rende conto che la sua barca, la Teignmouth Electron, non è all’altezza di navigare intorno al mondo. Decide però di non tornare a casa. Inizia quindi a emettere false comunicazioni riguardo alla sua navigazione, false posizioni della sua imbarcazione, fino a costruire un inganno vero e proprio per il mondo a terra, che non sopporta più. Inventa un mondo dove lui è l’unico protagonista, insieme alla sua imbarcazione, e sviluppa una forte ossessione per il tempo. Due settimane prima dell’eroico ritorno a casa previsto per Crowhurst, la Teignmouth viene trovata alla deriva, vuota. Tacita Dean crea diverse opere che parlano di questa storia: tra queste, un’incisione realizzata nel corrimano in legno di una balaustra all’interno del National Maritime Museum di Greenwich e un film, Disappearance at Sea I, che è la prima opera di Dean a fare riferimento alla storia di Donald Crowhurst. Questo film ipnotico, realizzato in formato anamorfico, viene girato quasi interamente al faro di Saint Abb’s Head e si concentra su specchi, prismi e filamenti che fanno parte della struttura del faro; è ambientato nel momento in cui la notte diventa giorno, ed esplora la qualità e il movimento delle luci artificiali e naturali, come la spia del faro e il sole che tramonta. Le immagini spettrali di Crowhurst e Bas Jan Ader, artista olandese disperso in mare durante una traversata in solitario così come l’inglese, diventano simbolo dell’imprevedibilità del mare e dei suoi pericoli.

 

 

LUCINDA DEVLIN

 

“La mia opinione personale sul ruolo della pena capitale nella nostra società non è in questione in queste fotografie. Piuttosto, ho voluto che fossero gli ambienti stessi a comunicare direttamente con gli spettatori”

 

 

 

LUCINDA DEVLIN Electric Chair, Holman Unit, Atmore, Alabama (From the series The Omega Suites) 1991 © Lucinda Devlin, courtesy Galerie m Bochum/Germany
LUCINDA DEVLIN
Electric Chair, Holman Unit, Atmore, Alabama
(From the series The Omega Suites) 1991
© Lucinda Devlin, courtesy Galerie m Bochum/Germany

 

 

Lucinda Devlin inizia, nel 1991, una serie di fotografie di camere a gas, camere per l’iniezione letale, sedie elettriche, celle nel braccio della morte nelle carceri rurali degli Stati Uniti: la serie, dal titolo The Omega Suites, fa riferimento, attraverso l’allusione all’ultima lettera dell’alfabeto greco, alla finalità dell’esecuzione. Lo scopo di queste fotografie non è di presentare un punto di vista di tipo etico sul tema della pena di morte, ma di concentrarsi sull’ambiente in cui avvengono le esecuzioni. Iniziato nel 1991 e completato nel 1998, questo lavoro mostra una serie di camere per le esecuzioni fotografate dall’artista nei vari penitenziari degli Stati Uniti, con il permesso e la cooperazione delle autorità locali. Queste suggestive immagini di spazi architettonici mettono in luce una realtà sociale, come quella americana, colma di contraddizioni, che vede una maggioranza di cittadini a sostegno della pena di morte contrapposti a 3.000 detenuti nel braccio della morte. Ogni fotografia viene etichettata dall’artista in modo tale che lo spettatore sia ben cosciente del ruolo particolare di ogni immagine nel cupo processo di presentazione della pena capitale. Le architetture di isolamento, le camere igienizzate, l’assenza di figure umane producono immagini clinicamente sterili: fotografie che riprendono gli spazi del condannato e quello dei testimoni, camere asettiche, pulite, tecnologiche. Immagini rigorose, nitide, senza mai la presenza umana, ma con la crudele anatomia di ogni oggetto, ogni particolare, ogni elemento dei luoghi dell’esecuzione. Divieti, stanze, oggetti giacciono in una dimensione asettica, che si dispone come una pellicola e sembra penetrare negli interstizi delle cose. Le immagini di Lucinda Devlin sono perfette e gelide come le pagine patinate di una rivista di design, in cui gli ambienti divengono tanto inerti da riuscire a rendere ardua l’impresa di stanarvi la vita.