DONNA FERRATO

 

“Sono in grado di scattare una straordinaria quantità d’immagini del dolore privato delle persone perché questo è l’unico modo per educare le masse. Non c’è niente di più potente di una fotografia documentaria che diventa una storia dentro una storia, raccontata senza trucchi o abbellimenti”

 

DONNA FERRATO Diamond (From the series Living with the Enemy) 1988 © Donna Ferrato
DONNA FERRATO
Diamond (From the series Living with the Enemy) 1988
© Donna Ferrato

 

Donna Ferrato inizia la sua carriera fotografando la liberazione sessuale delle donne all’inizio degli anni ottanta e si ritrova poco dopo a documentare scene di violenza domestica. Nel 1982, mentre sta lavorando a un progetto sulle ricche coppie delle aree suburbane, Donna Ferrato diventa una testimone involontaria: un uomo, sotto l’effetto di droga, picchia la moglie. L’evento dà inizio alla sua missione di documentare gli abusi contro le donne e i bambini all’interno delle pareti domestiche. Ferrato non era, per sua stessa ammissione, una fotografa impegnata, ma assistere a quella scena le cambia la vita, indirizzandola verso la scoperta del “non detto” delle donne, quel non detto che si manifesta nelle sale d’aspetto di ospedali, consultori e stazioni di polizia. Nel 1991, dal progetto, nasce il libro Living with the Enemy, il suo libro simbolo, che ha tre ristampe e vende oltre 40mila copie in tutto il mondo. Il complicato tema della violenza domestica la porta a tenere lezioni nelle università americane e a interagire con avvocati, giudici, poliziotti, studenti e sindaci.

 

 

GIORGIA FIORIO

 

“Le fotografie non sono mai delle risposte ma delle domande. E ognuno le legge e le interpreta come le sente. Secondo la propria sensibilità e percezione. Il fotografo in realtà non deve dire nulla di più. Non deve spiegare a tutti i costi che cosa vogliano dire le sue immagini”

 

 

GIORGIA FIORIO Legione Straniera, 3°REI, Guyana Francese 1995 © Giorgia Fiorio
GIORGIA FIORIO
Legione Straniera, 3°REI, Guyana Francese 1995
© Giorgia Fiorio

 

Al progetto Uomini Giorgia Fiorio lavora per dieci anni, a partire dal 1993, indagando sulle «comunità chiuse maschili nella società occidentale», come i pugili di New York, i minatori di carbone, la Legione Straniera, i toreros, i pompieri e gli uomini del mare: «esseri umani che nel nostro tempo avevano scelto di vivere in un quotidiano confronto fisico estremo con la morte e con se stessi». Le immagini, rigorosamente in bianco e nero («il bianco e nero è come fotografare in versi», dice in un’intervista), mostrano i corpi maschili tesi nello sforzo, con i muscoli scolpiti, uomini i cui sguardi ricordano la sfida che si accingono ad affrontare, sia essa con il fuoco, con il toro, con l’acqua. «Le fotografie non dicono mai, evocano. Dunque in un certo senso non sono mai delle risposte ma delle domande alle quali ogni spettatore è invitato a rispondere». Immagini che vanno al di là dei corpi, ma attraversano il tema della rappresentazione della bellezza virile in queste «comunità chiuse».

 

 

NAN GOLDIN

 

“Pensavo che non avrei perso nessuno, se lo avessi fotografato. Le mie foto mi ricordano quanti amici ho perduto”

 

 

NAN GOLDIN Trixie on the cot, New York City 1979 © Nan Goldin, courtesy the artist and Guido Costa Projects, Torino
NAN GOLDIN
Trixie on the cot, New York City 1979
© Nan Goldin, courtesy the artist and Guido Costa Projects, Torino

 

 

Pioniera di uno stile diaristico che è ormai uno standard narrativo nell’era di Instagram, Nan Goldin racconta con grande naturalezza lo stile di vita dissoluto ed edonistico della New York degli anni ottanta, preda di eccessi, droghe, violenze e alcool. Le sue fotografie sono un tuffo nelle vite di travestiti, drag queen, prostitute, gay: individui che la società marginalizza e che sono per lei il cuore nevralgico di una comunità che persegue la propria vita, in modo autonomo dai valori sostenuti da media e politica. Il suo nome raggiunge la popolarità con la serie fotografica The Ballad of Sexual Dependency, proposta in una sequenza di diapositive nel 1985, quindi in un libro l’anno successivo, e che è ancora oggi il punto di riferimento di un nuovo modo di fare fotografia: istantaneo, libero da tecnicismi e saturo di colore. Nel 2014, dopo undici anni di silenzio, pubblica Eden and After, una raccolta di fotografie dedicata al mondo dell’infanzia e dell’adolescenza, in cui non vigono le restrizioni di genere e di comportamento promulgate dalla società. Il suo ritratto con un occhio nero, lo sguardo fisso sul partner con la testa affondata nel cuscino, dichiara guerra agli stereotipi: non c’è coraggio senza fragilità.

 

RONI HORN

 

“Le mie opere si sviluppano in modo tale da non permettere mai allo spettatore di prendere troppa familiarità, o di fare ipotesi al riguardo. […] Io non sono interessata alle risposte. Le risposte creano chiusura. E, in ogni caso, non credo che esistano risposte, le risposte sono sempre provvisorie”

 

 

RONI HORN Untitled (Isabelle Huppert) 2005/2007 © Roni Horn, Private Collection, Milano
RONI HORN
Untitled (Isabelle Huppert) 2005/2007
© Roni Horn, Private Collection, Milano

 

 

Natura, tempo e vissuto interiore si intrecciano nei lavori di Roni Horn. Muovendosi fra disegno, scultura e fotografia, la Horn, nota anche per la sua natura androgina, indaga il tema del doppio, dell’identità, dell’inafferrabile natura degli eventi; è da sempre attratta, inoltre, dal rapporto che può stabilire con il suo pubblico, a cui chiede di vivere l’opera d’arte in modo attivo. La riflessione, sul rapporto fra differenza e identità, continua in You Are the Weather del 1994-96, dove l’amica Margret viene fotografata in centodieci modi diversi e solo apparentemente ripetitivi. L’identità dell’amica, unica e nel contempo molteplice, muta di scatto in scatto, secondo il variare delle condizioni climatiche («Nel caso di You Are the Weather, ero curiosa di capire se potessi scovare un posto sul suo viso che fosse come un paesaggio. Non in senso letterale, volevo piuttosto vedere quanto queste due entità fossero vicine»): un concetto, questo, espresso dalla stessa artista e che meglio non potrebbe definire l’obiettivo di questa serie di lavori. Ritratto di un’immagine è invece una serie di un centinaio di ritratti fotografici dell’attrice francese Isabelle Huppert, il cui volto riflette una vasta gamma di emozioni. Horn ha fotografato l’attrice in venti sequenze di cinque foto ciascuna. In ogni sequenza, la Huppert scivola brevemente in uno dei suoi personaggi: in questo modo il suo viso esprime personalità che non esistono nella realtà, ma solo nei film. Le fotografie di Roni Horn presentano studi di fisiognomica, in cui le variazioni mostrano che l’individuo è sempre una pluralità. L’assunto di base che permette l’accesso al lavoro di Roni Horn è la sua idea di un’enciclopedia di identità. Al centro delle sue serie vi sono le nozioni di diversità come base dell’identità, la capacità di trasformazione e l’impossibilità di un’identità definita permanentemente. Tuttavia, i ritratti non sono corredati da alcun commento, sollevando così interrogativi su come (e se) possiamo interpretare il volto che stiamo guardando anche senza un contesto prestabilito.

 

 

ZANELE MUHOLI

 

“Con la fotografia io do la possibilità alla gente di raccontare le loro storie, a modo loro. […] Le loro storie mi hanno causato notti insonni, molti di loro erano stati violati, e non volevo che la macchina fotografica fosse un’ulteriore violazione. Piuttosto, ho voluto stabilire e mantenere con loro relazioni basate sulla nostra comprensione reciproca”

 

ZANELE MUHOLI Skye Chirape, Brighton United Kingdom 2010 © Zanele Muholi, courtesy Stevenson, Cape Town and Johannesburg
ZANELE MUHOLI
Skye Chirape, Brighton United Kingdom 2010
© Zanele Muholi, courtesy Stevenson, Cape Town and Johannesburg

 

Nel 2009 consegue il Master of Fine Arts in Documentary Media presso la Reyerson University di Toronto, con una tesi che ripercorre, attraverso le immagini, la storia delle comunità lesbiche nel Sudafrica del post-apartheid. Tutto il suo lavoro artistico è impegnato, ideologicamente e politicamente, nel portare alla luce le problematiche delle comunità omosessuali africane, così da consegnare un lascito alle generazioni future. L’opera in mostra, Faces and Phases (2010), nasce dalla volontà di mappare una comunità invisibile. Si tratta di una serie in progress che ritrae lesbiche e transessuali incontrati dall’artista durante i suoi viaggi come attivista in posti quali Città del Capo, Gauteng, Botswana, fino ad arrivare in Svezia, a Londra e Toronto. Il lavoro può quindi essere visto sia come una dichiarazione, sia come un archivio, con cui Zanele Muholi racconta le storie e le lotte quotidiane affrontate dalle comunità LGBTI. Il ritratto diventa quindi forma di celebrazione e commemorazione di donne che subiscono quotidianamente violenze fisiche e psicologiche, spesso dai loro stessi amici e familiari, in una società che non tutela legislativamente i crimini fomentati dall’odio e dalla discriminazione. Il ritratto, dunque, si rivela uno strumento di esibizione dell’aspetto fisico, dell’estetica di donne dimenticate e oppresse da una società patriarcale e intollerante. L’intento dell’artista è quello di indurre lo spettatore a porsi delle domande sulle storie che si celano dietro quei volti. Come spiega l’artista, Faces è metafora della persona, e anche del confronto faccia a faccia tra la fotografa (artista e attivista al contempo) e i protagonisti dei ritratti; Phases si riferisce ai passaggi da una fase o da un’esperienza sessuale all’altra.