SHIRIN NESHAT

 

“Sto cercando di mettere insieme le immagini e le storie, di trovare l’armonia tra fotografia, pittura e parole. […] Quello che cerco è l’universalità, una storia iraniana che possa valere per tutti”

 

 

SHIRIN NESHAT Stories of a martyrdom (From the series Women of Allah) 1994 Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino. Photo by Cynthia Preston © Shirin Neshat, courtesy the artist and Gladstone Gallery, New York/Brussels
SHIRIN NESHAT
Stories of a martyrdom (From the series Women of Allah) 1994
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino. Photo by Cynthia Preston
© Shirin Neshat, courtesy the artist and Gladstone Gallery,
New York/Brussels

 

 

La serie Women of Allah (1993-97) di Shirin Neshat è composta da una serie di fotografie che ritraggono immagini di donne musulmane velate, tatuate, a volte armate. Neshat inizia la sua carriera artistica proprio con questa serie, in cui esplora il concetto di femminilità in relazione all’autorità maschile e al fondamentalismo islamico nel suo paese d’origine. I ritratti, in cui la pelle appare coperta da calligrafia persiana, sembrano voler indagare le forze sociali complesse che modellano l’identità delle donne musulmane. Un lavoro, quello di Shirin Neshat, condotto sul proprio corpo ma anche all’interno della cultura islamica, la quale impone che il corpo femminile sia visibile per frammenti, selezionati dalla rivoluzione khomeinista: gli occhi, le mani, i piedi; mentre tutto il resto è coperto dall’hijab, dal chador, o da una veste larga che come un mantello nasconde e sottrae alla vista. Neshat usa per le sue immagini l’abbigliamento tradizionale iraniano e la scrittura parsi; la calligrafia che ricopre volti, mani e piedi trascrive frammenti di poesie persiane riguardanti temi come l’esilio, l’identità, la femminilità e il martirio, o ancora parole e dichiarazioni di scrittrici femministe iraniane quali Tahereh Saffarzadeh, Forugh Farrokhzad, Parvin E’tesami. Il testo diviene un elemento accuratamente integrato in ciascuna immagine, mescola idea e ornamento, e offre impreviste introspettive della situazione odierna delle donne islamiche, oltre all’espressione letteraria della presenza femminile nella società iraniana e islamica.

 

 

YOKO ONO

 

“La storia della mia vita è allo stesso modo la storia del mondo. Sono sempre cosciente che quello che metto nel mio lavoro artistico è la verità. E la verità è solo quella della mia esperienza”

 

YOKO ONO Dream: Project In Una Parola 2009. Photo by Daniele Nalesso ©Yoko Ono, courtesy Fondazione Bonotto, Molvena
YOKO ONO
Dream: Project In Una Parola 2009.
Photo by Daniele Nalesso
©Yoko Ono, courtesy Fondazione Bonotto, Molvena

 

Yoko Ono viene descritta come «la più famosa artista sconosciuta: tutti conoscono il suo nome, ma nessuno sa cosa fa». Artista, cantautrice e musicista, è tra i primi membri di Fluxus, come sperimentatrice della performance (in Cut Piece, ad esempio, si presenta seduta su un palcoscenico mentre invita il pubblico a tagliare con delle forbici gli abiti che indossa, fino a restare nuda) e dell’arte concettuale (celebre il libro Grapefruit, edito nel 1964, in cui fornisce delle insolite istruzioni Zen che il lettore deve completare nella sua mente). Nel 2001 YES YOKO ONO, una retrospettiva di quattro anni del lavoro dell’artista, è premiata come miglior mostra museale di New York dall’International Association of Art Critics; nel 2002 le viene offerta la laurea in Belle Arti dal Bard College. A livello internazionale, tuttavia, Yoko Ono viene tutt’oggi ricordata principalmente per il suo matrimonio con John Lennon, celebrato nel marzo del 1969. In quell’occasione i due sfruttano l’attenzione mediatica della celebrazione a favore del loro impegno per il pacifismo e il rispetto dei diritti umani: la testimonianza che ci resta oggi è una celebre fotografia che ritrae i coniugi durante il Bed-in for Peace. Ono e Lennon restano per una settimana nella suite presidenziale dell’hotel Hilton, accogliendo i giornalisti dalle nove del mattino alle nove di sera; le aspettative erano quelle di atteggiamenti provocatori e stravaganti, i due invece si fanno trovare ogni giorno in pigiama, seduti nel letto, parlando di amore e pace universali.

 

 

CATHERINE OPIE

 

“Se c’è una cosa che non sono è monodimensionale. Così, invece di puntare su soggetti queer, ho cercato di espandere un messaggio queer”

 

 

CATHERINE OPIE Ron Athey 1994 Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino © Catherine Opie, courtesy Regen Projects, Los Angeles
CATHERINE OPIE
Ron Athey 1994
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino
© Catherine Opie, courtesy Regen Projects, Los Angeles

 

 

Catherine Opie inizia a fotografare riprendendo le comunità del suo paese: da quella queer di San Francisco ai surfisti in attesa delle onde, per spostare poi la sua attenzione sui pescatori dei laghi ghiacciati del Minnesota e i giocatori di football delle squadre del college; nel 1995, tuttavia, decide di compiere una svolta artistica. La decisione la porta a mettere da parte la ritrattistica per immortalare le autostrade di Los Angeles, le piccole case dei pescatori del Minnesota sperse nei ghiacci, nella serie Icehouses, o gli esterni delle ricche dimore di Beverly Hills in Houses, o ancora il suo vicinato di Los Angeles in In and Around Home: indaga così il modo in cui le fotografie danno voce ai fenomeni sociali in America oggi, registrando atteggiamenti e rapporti tra le persone, oltre al modo in cui queste ultime occupano il paesaggio. Spaziando tra concettuale e documentario, Catherine Opie in molte delle sue opere cerca di catturare l’espressione dell’identità individuale attraverso i gruppi (le coppie, le squadre, le folle). Sia che documentino movimenti politici, sottoculture queer o trasformazione urbana, le immagini di Opie sono un ritratto dell’America contemporanea.

 

 

BETTINA RHEIMS

 

“Trent’anni fa, quando volevo diventare fotografa, giravo con la mia macchina fotografica e riprendevo ciò che avveniva intorno. Poi, ho voluto vedere le donne svestirsi. Si pensa che io svesta le donne, non è vero. Io svesto i loro pensieri”

 

 

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Il lavoro di Bettina Rheims ammicca all’universo e ai codici della moda, pur riguardando temi spesso ampiamente dibattuti nella società. La serie che la rende famosa, dedicata al mondo degli acrobati e dello striptease, nel 1981 le vale una mostra monografica al Centre Pompidou. Al centro della sua ricerca sta il corpo femminile, raccontato sempre con accenti sensuali, erotici ed emotivi; nelle sue immagini «la sensualità è legata al piacere e non al dolore, come spesso accade in arte». Altro ambito d’indagine nel lavoro di Bettina Rheims è l’identità: è del 1989-90 la serie Modern Lovers, ritratti in bianco e nero che raccontano il corpo umano nelle sue forme androgine e femminili. L’opera in mostra, Gender Studies (2011), riprende la linea di ricerca avviata da Modern Lovers, portandola però a uno step successivo: i protagonisti sono, questa volta, uomini e donne transessuali, o che hanno deciso di vivere sulla linea di confine tra i due generi sessuali. I modelli sono ingaggiati con un procedimento inconsueto per l’artista, che crea un profilo Facebook in cui, diffondendo immagini della prima serie fotografica, invita chi «si sente diverso» a contattarla. Nonostante la sua iniziale diffidenza verso i social network, Rheims ne scopre il potere di comunicazione e aggregazione: persone apparentemente solitarie, che non hanno mai lasciato le proprie città, hanno milioni di amici virtuali nel mondo. Ventisette candidati provenienti da ogni parte del mondo posano nello studio di Bettina Rheims. Le storie e le voci dei modelli colpiscono l’artista al punto da realizzare, in collaborazione con il sound artist Frédéric Sanchez, una registrazione da aggiungere alla componente visuale dell’opera.

TRACEY ROSE

 

“Liberate dai vincoli culturali e ideologici, le mie immagini ricercano la capacità di agire al di fuori di qualsiasi pregiudizio: questa è la modalità principale di approccio e di azione all’interno di un discorso sull’identità personale e artistica”

 

 

TRACEY ROSE Lolita (From the series Ciao Bella!) 2001 ©Tracey Rose, courtesy the artist and Dan Gunn, Berlin
TRACEY ROSE
Lolita (From the series Ciao Bella!) 2001
©Tracey Rose, courtesy the artist and Dan Gunn, Berlin

 

 

Il lavoro di Tracey Rose si concentra sulla performance, la video installazione e la fotografia, mezzi con cui esplora e affronta tematiche quali le politiche identitarie, sessuali e razziali. Buona parte della sua produzione fa riferimento all’arte degli anni sessanta e settanta: proprio come le artiste della generazione precedente, Rose focalizza l’attenzione sul corpo femminile, criticando, attraverso la satira e il travestimento, gli stereotipi in cui questo corpo è stato imprigionato dalla cultura occidentale. L’opera in mostra, Ciao Bella (2001), è capitale in tal senso. Realizzata durante un programma di residenza della South African National Gallery a Città del Capo e presentata in occasione della Biennale di Venezia curata da Harald Szeemann, è composta da una serie di ritratti in cui l’artista stessa veste i panni di diversi personaggi femminili (alcuni storici, altri d’invenzione), riconducibili ai ruoli assegnati alle donne da una società prepotentemente patriarcale: Maria Antonietta, Lolita, Ilona Staller, una sirena, un’esotica bellezza asiatica, una dominatrice, Josephine Baker, una coniglietta, una cow girl, una suora ecc. Le loro azioni, ora drammatiche ora grottesche, vanno a comporre quella che è stata definita una «parodia femminista» dell’Ultima cena di Leonardo da Vinci.