A Lodi sei mostre che raccontano l’impegno delle Ong

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LODI. ‘When the Others Go Away’ di Simone Cerio, ‘Pig Iron – Il Ferro dei Porci’ di Giulio Di Meo, ‘Libano, una marea umana di rifugiati’ di Giada Connestari, ‘Lamiere’ di Gianluca Uda, ‘Il loro futuro, il nostro sogno’ di Irina Yeutuhova e Yuriy Sokolov, e ‘La giusta distanza – Dall’incontro al dialogo: storia di una cooperazione’ di Silvia Morara e Paola Codeluppi. Sono queste le mostre dello Spazio Ong proposte dal Festival di Fotografia Etica, alla sua V edizione.

 

© Simone Cerio/ Parallelozero
© Simone Cerio/ Parallelozero

 

‘WHEN THE OTHERS GO AWAY’, SIMONE CERIO.

Il 2014 segnerà il ritiro definitivo delle truppe americane dall’Afghanistan dopo 12 anni di guerra. Nel frattempo l’ONG Emergency ha avviato un percorso con le università italiane che prevede la possibilità di terminare una specializzazione di Medicina d’Urgenza e Chirurgia Generale in un ospedale gestito dall’organizzazione stessa. Mentre inizia il piano di ritiro dall’Afghanistan, c’è chi si prepara a raggiungerlo. Davide Luppi è il primo specializzando italiano in Chirurgia Generale ad andare in un ospedale di guerra per terminare il proprio percorso di studi. Un viaggio di sei mesi, da Modena a Kabul, per completare un percorso professionale difficile da attuare in Italia. Un percorso di vita verso una terra lacerata da troppi anni di guerra. L’approccio al progetto è mirato al racconto di guerra, tralasciando il linguaggio usuale foto-giornalistico e virando invece verso una linea maggiormente interpretativa: “ho scelto questo tema perché volevo affrontare un argomento di attualità in un Paese molto difficile e fotograficamente già approfondito, cercando però un punto di vista nuovo. Solitamente siamo abituati a leggere l’Afghanistan sempre dal punto di vista della vittima, paziente, abitante. Io ho deciso di raccontare l’altra faccia della medaglia, sottolineando la scelta di un operatore che decide di mettersi in gioco in un territorio a lui sconosciuto, svelando l’emotività e le difficoltà incontrate.” È un nuovo approccio all’Afghanistan quello che l’autore ci mostra. Emergency è sempre presentata dal punto di vista delle vittime, questa volta, invece, è chi le cura ad essere il soggetto della narrazione.

 

Villaggio Novo Oriente, Açailândia (Maranhão). © Giulio Di Meo
Villaggio Novo Oriente, Açailândia (Maranhão).
© Giulio Di Meo

 

‘PIG IRON. IL FERRO DEI PORCI’, GIULIO DI MEO.

Pig Iron è una mostra sulle gravi ingiustizie sociali e ambientali commesse dalla multinazionale Vale negli stati brasiliani del Pará e del Maranhão, tra i più poveri del paese. Nata come piccola impresa mineraria nel 1911, oggi la Vale è un colosso mondiale con un fatturato di 59 miliardi di dollari. Possiede miniere in Australia, Mozambico, Canada e Indonesia, industrie metallurgiche in Nord America ed Europa. Caposaldo della sua attività produttiva rimane, però, l’estrazione di ferro in Brasile, secondo produttore al mondo di questo minerale. Per trasportare il ferro dalle miniere del Pará al porto di São Luis nel Maranhão, Vale ha costruito una ferrovia di quasi 1000 km, lungo la quale ogni anno vengono trasportate più di 100 milioni di tonnellate di ferro milioni di dollari che tutti i giorni vengono fatti annusare ai poveri senza che un centesimo finisca nelle loro tasche. Niente ospedali, niente scuole, niente miglioramento della qualità della vita. Ottengono solo danni, sconquasso sociale e ambientale. Le foto in mostra raccontano la storia, il quotidiano di queste persone, con l’intento di mostrare anche un punto di vista personale e non soltanto quello dell’economia di sfruttamento. L’autore non ha cercato né il dramma né il dolore, ma la speranza, la resistenza e un sentimento di condivisione. Queste foto fanno parte di un progetto più ampio, nato dalla collaborazione con l’Arci (www.arciculturaesviluppo.it) e la campagna Justiça nos Trilhos, una rete di associazioni e movimenti che lottano contro gli abusi e le prepotenze della multinazionale Vale. Un progetto che è diventato un libro, i cui ricavi sono stati destinati alla compagnia teatrale Juventude pela Paz, formata da un gruppo di giovani di Açailândia che fanno parte di Justiça nos Trilhos.

 

© Giada Connestari
© Giada Connestari

 

‘LIBANO, UNA MAREA UMANA DI RIFUGIATI’, GIADA CONNESTARI.

1,5 milioni di rifugiati. Tanti, secondo le stime ufficiali delle Nazioni Unite, saranno i profughi siriani registrati nel solo Libano entro la fine di quest’anno. Le stime non ufficiali spostano la cifra verso i 2 milioni. Una vera Egira, parola araba che significa emigrazione, fuga. Fuga dalla guerra, dalle persecuzioni, da una guerra civile senza quartiere in cerca di un futuro che sembra smarrito. Oggi i profughi siriani rappresentano un quarto dell’intera popolazione del Libano, il solo paese a non avere autorizzato lo stanziamento di campi profughi ufficiali, lasciando alla sola cooperazione internazionale l’onere di organizzare l’accoglienza e la sopravvivenza di chi scappa. I profughi arrivano a mani vuote, una valigia con pochi vestiti e nugoli di bambini al seguito. Hanno bisogno di cibo, ma anche di un tetto, di servizi igienici, cure mediche e scuole. Con il prolungarsi della crisi le famiglie hanno esaurito i risparmi. Molti bambini, già costretti a lasciare gli studi per mancanza di infrastrutture, devono ora chiedere l’elemosina in strada o raccogliere plastica da riciclare per aiutare i genitori a pagare gli affitti, i cui prezzi sono schizzati alle stelle. Nella valle della Beqaa – uno dei principali punti d’accesso al Libano – gli insediamenti informali e le tendopoli gestite dalle Nazioni Unite sono strapiene. Ancora più grave è la situazione dei siriani-palestinesi, obbligati a trovare una sistemazione in uno dei dodici campi-profughi palestinesi, le cui deboli infrastrutture sono ormai al collasso. Chi lavora nella cooperazione fa il possibile con budget ridotti. Infatti, nell’ambito dell’appello lanciato nel 2013 per raccogliere i fondi necessari a fronteggiare l’emergenza, le Nazioni Unite hanno chiesto 1,7 miliardi di dollari da destinare al Libano: a giugno di quest’anno ne era stato assegnato solo il 17%. L’intervento di Oxfam Italia è indirizzato all’assistenza degli sfollati più vulnerabili, alla soddisfazione dei loro bisogni più urgenti, dal cibo all’igiene, ma anche all’assorbimento della tensione sociale creatasi con la comunità locale. La distribuzione dei vouchers per l’acquisto di cibo e kit igenici nei negozi locali convenzionati è una maniera per fare circolare indirettamente gli aiuti anche tra la popolazione locale e favorirne l’integrazione. Le fotografie di Giada Connestari fanno parte del progetto Follow the Money, coordinato dal giornalista Emanuele Bompan grazie all’Innovation in Development Reporting Grant Programme dell’European Journalism Center e La Stampa, finalizzato a raccontare il lavoro della cooperazione italiana a favore delle comunità che in tutto il mondo beneficiano di importanti progetti di aiuto umanitario e di sviluppo. Per non dimenticare il ruolo fondamentale dei cooperanti e dei fondi pubblici per la cooperazione.

 

Lamiera Soweto. © Gianluca Uda Photo
Lamiera Soweto.
© Gianluca Uda Photo

 

‘LAMIERE’, GIANLUCA UDA.

Lamiere è una mostra di fotografie realizzate da Gianluca Uda nel 2012 e 2013, durante la sua esperienza nella baraccopoli di Soweto, a Nairobi (Kenia). Sono fotografie in cui la verità dell’immagine, frutto di un rapporto umano profondo e senza pregiudizi, si accompagna alla bellezza formale, essenziale e pura, dando luogo a una rappresentazione insieme poetica e drammatica della realtà di uno dei luoghi più poveri e difficili del mondo.

 

© Yuriy Sokolov
© Yuriy Sokolov

 

‘IL LORO FUTURO, IL NOSTRO SOGNO’, IRINA YEUTUHOVA E YURIY SOKOLOV

Le foto in esposizione mostrano le famiglie aiutate dal Progetto Tizzi. Il Progetto Tizzi nasce a Lodi 10 anni fa con l’intento di creare un gruppo di lavoro nella povincia di Dobrus che affiancasse le istituzioni locali nelle attività di assistenza sociale nei riguardi di bambini e famiglie in grave difficoltà. Nei primi anni il Progetto Tizzi si è concentrato soprattutto sulla figura del bambino abbandonato e la ricerca e formazione di famiglie affidatarie in loco, raggiungendo risultati sorprendenti. In 5 anni di lavoro (2005-2010) il gruppo trova e forma ben 53 famiglie affidatarie e inserisce più di 80 bambini. Possiamo dire con un pizzico di orgoglio che nella nostra provincia quasi nessun bambino finisce più in un orfanatrofio. Nel 2011 il Progetto Tizzi si evolve e si concentra sulle famiglie di origine dei bambini con gravi problemi sociali. Un lavoro completamente nuovo e rivoluzionario: cercare di prevenire l’abbandono e aiutare il ritorno del bambino nella propria famiglia di origine è infatti un compito assai difficile, soprattutto perché non è mai stato fatto nella provincia di Dobrus e, forse, in tutta la Bielorussia. Attualmente le famiglie naturali seguite dal Progetto Tizzi sono circa un trentina, suddivise per tipologiia e per modalità d’intervento (lavoro psicologico individuale e di gruppo, lavoro sociale, lavoro pedagogico, sussidi in denaro e aiuti materiali). Il gruppo più grande è composto da 12 famiglie, i cui figli sono rientrati dopo essere stati al Priut (il centro di accoglienza temporaneo che li ospita prima del collocamento definitivo in orfanotrofio), e sono seguite continuamente. Un altro gruppo è composto da 8 famiglie, i cui figli non sono ancora stati allontanati dalla famiglia.

 

Georgette e Audia si esercitano in matematica. Bukavu. © Paola Codeluppi
Georgette e Audia si esercitano in matematica. Bukavu.
© Paola Codeluppi

 

‘LA GIUSTA DISTANZA’, SILVIA MORARA E PAOLA CODELUPPI

In occasione dei cinquanta anni dell’ONG, MLFM propone una mostra per raccontare l’impegno dei suoi volontari. L’identità dell’ONG è frutto di questi anni passati al fianco dei più poveri; nel frattempo molti aspetti della cooperazione sono cambiati, ma lo spirito dei fondatori di MLFM è ancora vivo e tutt’oggi determina le scelte future. All’inizio degli anni Sessanta si operava nei Paesi in via di Sviluppo attraverso aiuti umanitari, mentre attualmente si lavora con articolati progetti di sviluppo, volti a rendere indipendenti le comunità locali. Le immagini vi condurranno, attraverso gli occhi del cooperante, all’incontro con Paesi e popoli “altri”, raccontando contrasti, meraviglia, stereotipi, aspettative, desideri e speranze. autocritica, consegna all’osservatore la chiave per dare il via all’Incontro, condizione indispensabile per gettare le basi di un progetto di cooperazione. Il colore delle fotografie che seguono riflette l’apertura dei sensi: il cooperante si lascia trasportare dall’entusiasmo e dalla curiosità del “nuovo”. (…) Attraverso sei scatti di Silvia Morara si racconta questa prima fase empatica dell’incontro: la conoscenza di un Paese e della sua gente. (…). Trovata la giusta empatia inizia quindi il dialogo, che è la vera premessa di un progetto di cooperazione e permette di creare un sentimento di fiducia che dura nel tempo. Con le sei fotografie di Paola Codeluppi, tratte dalla mostra su Ek Abana Scatti di vita quotidiana, MLFM vuole così raccontare un progetto che ben lo rappresenta, nel quale il colore passa in secondo piano perché ci si concentra sulle relazioni instaurate. Il progetto Casa Ek Abana comincia nel 2001 nella Repubblica Democratica del Congo grazie al volontariato di Natalina Isella. La struttura sostiene bambine accusate di stregoneria; ad oggi sono più di 200 i minori che hanno trovato la serenità. (…) Questo progetto incarna lo spirito dell’ONG, ma soprattutto rivela il vero obiettivo della nostra cooperazione: non fare mera carità né assistenzialismo, ma trovare la “giusta distanza” per accompagnare e sostenere queste comunità in un percorso volto alla sostenibilità.

 

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