Helen Levitt è sicuramente una delle fotografe di strada più importanti del secolo scorso.

Per lei la vita stava nella vita quotidiana delle persone. Per questo fotografò la gente comune, nelle dinamiche abituali ma anche in scene divertenti, mettendo al centro dei suoi scatti soprattutto i bambini, che l hanno ispirata nella ricerca di immagini surreali ed iconiche come nella teatralità delle maschere di Halloween.

Una fotografa affascinante che abbiamo avuto modo di scoprire in quest ultima edizione di Les Recontres d’Arles visitando la mostra “Observing New York’s Streets”, allestita al piano inferiore nel Espace Van Gogh.

walter moser les rencontres arles 2019
la mostra ad Arles © terry peterle

Curata da Walter Moser, anche capo dipartimento del Museo Albertina di Vienna, la mostra si rivela come un inconfondibile documento su quanto questa autrice fosse pioniera nella sua visione. E’ a lui che abbiamo rivolto qualche domanda per scoprire meglio Helen Levitt e ciò che viene proposto nella retrospettiva ad Arles.

Una mostra, spiega, Moser “in cui sono esposte 138 immagini che comprendono il bianco e nero ed il colore” oltre a “film, libri e giornali in cui si analizzano i punti focali su cui l’autrice ha lavorato come il gioco dei bambini, il modo in cui lei ha voluto rappresentarli“.

walter moser les rencontres arles 2019
walter moser © terry peterle

Oltre ai soggetti, al bianco e nero, possiamo dire che altro suo punto di forza sono le immagini a colori?

“Per noi, che viviamo in questa epoca di fotografia incalzante, il colore è un mezzo naturale rispetto a quando la Hevitt intraprese questa scelta. Erano gli inizi degli anni ’60 e la fotografia a colori era un nuovo processo, prima di tutto da un punto di vista tecnologico.

Il colore fu però, in prima istanza, utilizzato nel settore pubblicitario e della moda e quindi il suo utilizzo dal punto di vista artistico non era considerato autorevole. Fino ad allora la fotografia artistica era vista solo in bianco e nero e la Hevitt fu una delle prime a utilizzare il colore per esprimersi artisticamente. Mostriamo, inoltre, l’evolversi della sua visione fotografica alla regia.

walter moser les rencontres arles 2019
la mostra ad arles © terry peterle

Interessante anche il progetto sulle maschere. Coincide con il suo avvicinamento al surrealismo?

Helen Levitt ha molto spesso fotografato scene di vita quotidiana. In particolare prediligeva bambini mascherati, come durante Halloween. Non è stata una scelta causale ma intenzionale rispetto al fatto che la Hevitt aveva abbracciato la corrente del surrealismo.

Pensiamo al fatto che era contemporanea a Picasso – che utilizzava le maschere nella sua arte primitiva – o a Man Ray ed altri rappresentanti del surrealismo. La maschera aveva la funzione di rendere incerta la personalità dei soggetti fotografati. Al contempo la Hevitt ha una concezione iconografica al surrealismo: rappresenta i bambini travestiti in maschera scegliendo questo linguaggio come metafora di un rituale magico. E’ un processo iconografico che l’autrice sceglie in modo consapevole. 

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© terry peterle

Helen Lewitt ha deciso ad un certo punto di dedicarsi anche alla regia.

Al tempo, diversi fotografi si sono portati alla regia per la creazione di film. Ad esempio, sia in fotografia che alla regia sono stati Henri Cartier-Bresson e Paul Strand.

Helen Levitt aveva da sempre un forte interesse verso la cinematografia e fu una grande fan di Charlie Chaplin: i film muti di questo pioniere erano per lei grande fonte di ispirazione.

Negli anni ’40 scelse anche di dedicarsi alla cinematografia perché voleva intraprendere la strada di Hollywood per guadagnare di più. Il suo film, l’unico in cui lei è regista e direttrice “In the Street” girato assieme a Janice Loeb e James Agee – un film documentario – viene trasmesso in mostra e dura 15 minuti. Nel 1948 esce il film “The Quiet One” diretto da Sidney Meyers e di cui lei scrive la sceneggiatura – assieme a Meyer e Loeb. Furono tutti e tre nominati all’Oscar come miglior sceneggiatura e anche come miglior documentario.

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© terry peterle

Lei percepisce una sorta di sensibilità femminile nella sue fotografie?

Secondo il mio punto di vista, la fotografia di Helen Lewitt – e in generale quella femminile- è diversa da quella prodotta da fotografi uomini, senza per questo creare un pregiudizio.

Nella street photography, nel mirino dei fotografi uomini, i soggetti femminili vengono rappresentati in modo passivo. Nella fotografia creata da una donna e qui in particolare modo quella di Helen Levitt, la donna è rappresentata in modo attivo: con ciò intendiamo dire che il soggetto donna risponde alla fotografa nell’immagine guardando direttamente l’obiettivo.

Si tratta di un modo diverso di comunicare con il soggetto, un modo attivo di riprodurre il soggetto. Un altro aspetto da considerare parlando di visione fotografica femminile è che la Hevitt veniva nominata assieme ai suoi colleghi uomini, come Cartier-Bresson, Walker Evans, James Agee.

E’ certamente vero che fu condizionata dai loro stili e ne studiò il loro linguaggio, ma in modo indipendente produsse un suo modo di vedere la fotografia e nella mostra questa intenzione si percepisce. La curatela è stata incentrata anche su questo aspetto.

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© terry peterle

C’è un immagine di Helen Levitt a cui tiene particolarmente? 

Ci sono molte immagini a cui sono legato ed è sicuramente difficile dire che ne abbia una in particolare che mi piace. Vorrei parlare di questa immagine a colori datata 1980, perché in particolare rappresenta l’immaginario fotografico della Levitt in età matura quindi è la sua concezione fotografica, in quel momento ma già frutto di anni di carriera.

La Levitt inizia a scattare a colori dagli anni ’60 e l’uso di questo processo veniva per lo più utilizzato nel settore pubblicitario. Nell’arte non era considerato autorevole. Lo scatto che vediamo riporta alle origini del pensiero della Levitt al surrealismo a cui era molto legata.

Nell’immagine c’è una bambina, che forse sta cercando qualcosa, magari una palla da gioco che è andata a finire sotto l’auto. La Levitt immortala la ragazzina non mostrandone il volto: è un enigma. Ciò che vediamo sono le estremità del corpo, le braccia e le gambe, un modo per rappresentare il corpo deformato e alienato.

Questa immagine ci dimostra come l’autrice fu condizionata sì dalla corrente surrealista ma anche dal profondo interesse dei film muti, dove il corpo veniva utilizzato in modo grottesco e la mimica corporale fungeva da elemento comico, un modello legato sempre al surrealismo cinematografico, lo slapstick. In questa immagine si incrociano molteplici piani: il modo in cui la Hevitt utilizza il colore – la lucentezza del verde e del blu – e nel contempo l’alienazione della realtà che circonda la ragazza, vista in una visione irrazionale. C’è un’altra immagine di cui vorrei parlarvi.

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© terry peterle

Ci dica.

E’ l’immagine della bambina con il giglio.

Le immagini della Hevitt si concentrano molto sui gesti e sul linguaggio del corpo, tanto che i suoi soggetti di strada di New York vengono rappresentati in parte come teatranti su un palcoscenico. Questa scelta stilistica è ben visibile in questa immagine, la bambina con il giglio, appunto, dove già si percepiscono il legame dei vari condizionamenti culturali e piani di rappresentazione.

Nell’immagine vediamo la bambina che posa di fronte alla fotografa, con scetticismo: è consapevole di essere immortalata ma non è contenta di questo. L’indisposizione è visibile anche nella rigidità della posizione della mano. La bambina tiene in mano un giglio e proprio la forma del fiore rafforza la rigidità posturale e il disagio provato dalla ragazzina.

La Hevitt era molto attenta alla mimica ed ai gesti del corpo. Nello sviluppo delle immagini in camera oscura, l’autrice si accertava sempre che questi due elementi fossero presenti e ben visibili. Per esserne sicura, infatti, non si accontentava della stampa a contatto o di semplici negativi ma faceva degli ingrandimenti 3x4cm, una grandezza sufficiente che le permettevano di assicurarsi se la mimica ed i gesti fossero presenti nell’immagine per poter decidere se, infine, stamparle o meno.