Questa intervista, per essere letta, ha bisogno di 12 minuti
Eriberto Guidi. Sconfinamenti Fotografici è il titolo della mostra esposta allo spazio espositivo Terminal Mario Dondero a Fermo. Apprezzato fotografo della Regione Marche e divenuto in pochi anni autorevole nel panorama nazionale, Guidi è riconosciuto al mondo per la sua fotografia in bianco e nero dal titolo “La Novizia” del 1968. Decisiva, per lui, anche l’amicizia con Luigi Crocenzi, intellettuale prima di tutto e importantissimo promotore della cultura fotografica italiana.
Per scoprire meglio questo fotografo abbiamo intervistato le curatrici della mostra, Simona Guerra e Lisa Calabrese. Loro ci hanno restituito aneddoti, curiosità, storie di vita e fotografia di Eriberto Guidi.
Eriberto Guidi è un fotografo marchigiano vissuto dal 1930 al 2016 e ora in mostra a Fermo. Come avete scoperto il suo lavoro fotografico da cui avete avuto modo di approfondire il suo lavoro?
Simona Guerra: sia per me che per Lisa, Eriberto Guidi è stato un caro amico per molti anni. È un fotografo che abbiamo conosciuto entrambe prima sui libri di Storia della Fotografia, poi personalmente. Per la Regione Marche è stato un fotografo di punta, perché è sempre stato presente nei vari eventi importanti della fotografia e nelle scuole. Negli anni Cinquanta, in particolare, si sono sviluppate una serie di situazioni importanti per la fotografia – cenacoli, circoli e quant’altro – di cui Eriberto Guidi ha fatto parte. Guidi è nato a Fermo ed è sempre vissuto lì.
Lisa Calabrese: arrivata a Fermo, ho avuto modo di conoscerlo marginalmente attraverso degli amici fotografi comuni o partecipando a conferenze del Fotocineclub di Fermo (da lui costituito nel 1960 su impulso di Crocenzi). Ma è solo nel 2011 grazie a una mostra collettiva da me organizzata – La luce delle Marche, a cura di Simona Guerra – che ho avuto modo di avvicinarmi al suo mondo, familiarizzare con le sue opere e ascoltare i suoi racconti.
La sorpresa più grande l’ho avuta dopo la sua morte: curando questa mostra ho scoperto quanto era prolifico, creativo e inedito. Era solito infatti accennarti o discutere su un progetto a cui stava lavorando, per stimolare una riflessione o un confronto, ma solo dopo anni di attenta ricerca, ne affinava il linguaggio visivo o una tecnica, per concludersi in una mostra.
Eriberto Guidi è venuto a mancare da pochi anni, chi detiene ora l’Archivio da cui avete tratto questa mostra?
SG: L’Archivio fotografico, per scelta di Guidi, è detenuto dalla famiglia. Ci sono degli eredi che lo stanno gestendo. Questa prima mostra importante, consistente, proviene dalla volontà della famiglia: una mostra in suo omaggio per restituire l’importanza culturale e sociale che ha coltivato Guidi come persona e come personalità artistica. Un inizio di qualcosa che possa essere proposto in approfondimenti futuri.
Le immagini di Guidi sembrano voler “misurare il paesaggio”, con la correlazione tra il guardare e il camminare. Un’attività che hanno svolto alcuni autorevoli fotografi a partire da Stieglitz, ma rappresentato anche dai nostri fotografi del Paesaggio italiano.
Camminare e fotografare, rappresentare il paesaggio come rappresentare i propri stati d’animo. Walking art come definita da Hamish Fulton come espressione artistica. Potete dirci qualcosa di più da questa modalità scelta anche da Guidi dove non è solo la fotografia a guidare l’autore ma anche la ricerca, camminando?
SG: Per tutta la scuola marchigiana il paesaggio è centrale, un soggetto molto importante. Questo perché il rapporto con la natura dovuta anche alla densità abitativa della regione che è ampia e la presenza del mare, mette molto in relazione l’uomo con la natura. Questo dialogo in particolare con il mare, è una cosa che ricorre osservabile anche in certi autori che si sono occupati di altri generi.
Al fattore camminare non saprei risponderti, perché non so come si muovesse quando usciva a fotografare. Però per certo tutto il suo lavoro gira intorno alla natura. È un lungo dialogo con la natura, declinata in un certo modo, che all’inizio fa entrare la presenza umana per poi pian piano allontanarla. È un discorso interiore, filosofico.
Come “funzionava” la fotografia di Eriberto Guidi? Come procedeva concretamente nella ricerca “del suo paesaggio”
SG: Guidi fotografava il paesaggio, un grande paesaggio che comprendeva grandi aree. Poi in camera oscura, ingrandiva una parte di questo paesaggio e ci lavorava.
La cosa incredibile è che dopo averci lavorato a lungo su quel “pezzo” di paesaggio, faceva retromarcia: tornava alla visione generale di quella stessa fotografia e poi tornava di nuovo su un particolare e ci si soffermava, ci lavorava, ci indagava. Quindi era un modo viscerale di lavorare sulla natura.
Poteva anche soffermarsi su uno stesso scatto per anni e il suo archivio è vastissimo. È un autore che ha prodotto tantissimo. Era proprio il suo modo di vedere il mondo, di cercarlo, di approfondirlo. Per cui nel particolare c’era il tutto e nel tutto c’era il particolare.
Come si vede da alcune immagini, alcuni soggetti di Guidi definiscono disegni e geometrie. L’impressione è che questo artista non sia stato solo legato alla fotografia, ma anche ad altre arti visive. È così?
SG: Guidi ha sempre avuto un grande amore verso la pittura, verso la musica. La fotografia era il modo più consono per lui per potersi esprimere. Ciò non significa che si fosse precluso altre strade. Era anche innamorato della grafica. La fotografia era il media che però utilizzava e ha praticato come espressione artistica e autoriale. Per cui fotografia come unico medium. È l’espressione massima di altre competenze che ha appreso in altri ambiti.
In fotografia si è affermato in pochissimi anni proprio perché è stato uno dei discepoli di Luigi Crocenzi. Guidi si è fatto subito conoscere come fotografo del bianco e nero e questa cosa se l’è portata dietro per molto tempo, giustamente perché era bravissimo in questa scelta stilistica.
Potete definirlo uno sperimentatore, visti anche gli anni che interessano l’Italia in particolare modo nell’arte contemporanea dagli anni ’50 in poi con l’uso della fotografia non come unico media?
SG: Sì, Guidi è stato un grande sperimentatore: si è scoperto da alcune sue rare pubblicazioni e dalle ricerche che abbiamo fatto, che aveva una vita parallela fotografica che era tutta incentrata sul colore che però non ha mai rivelato. Con il colore, dalla fine degli anni Settanta, ha lavorato in modi molto sperimentali e lo ha fatto producendo fotografia a colori e anche colorando le fotografie in bianco e nero. Le ultime fotografie sono a colori e con ciò intendo fotografie su cui vi è stata una colorazione manuale, come ne “I colori del vento”.
Eriberto Guidi e il colore. Come lo utilizzava?
LC: Attraverso due sostanziali tecniche di sperimentazione del colore che caratterizzano i suoi ultimi lavori “I colori del vento” (1998-2013) a “L’abitudine del cielo” (2013), entrambe presentati in occasione della mostra “Il Cielo dentro la Terra” che il Centro Studi Osvaldo Licini dedica ad Eriberto nel 2013.
Ne “I colori del vento” il colore consiste in una serie di stampe fotografiche analogiche “illuminate” a mano, come lui le definisce, quindi vere fotografie scattate e stampate in bianco e nero a cui egli aggiunge colore servendosi di matite pastello. Alla sperimentazione tecnica si aggiunge dunque il gusto dell’intervento fisico sulla carta, del gesto pittorico che sconfina e supera il “solo” disegnare con la luce della fotografia.
Diversamente nelle opere de “L’abitudine del cielo”, usa una tecnica inedita caratterizzata da un duplice processo di intervento, in fase di ripresa con duplicatori modificati e montati sulla reflex. In fase di sviluppo colore, per realizzare le stampe, questa volta digitali. Qui troviamo colori al limite del naturale, così come i soggetti sono al limite del figurativo.
Questa ultima tecnica viene affinata e portata ad esiti estremi nell’ultimo lavoro inedito sul paesaggio e sul colore “Il mio sole” (2014) al quale Eriberto si stava dedicando con passione nella fase estrema della sua esistenza. Ispirato dalla conoscenza e dalla riflessione sulla pittura liciniana, in questa serie Guidi riprende e ri-fotografa alcuni scatti del passato elaborandoli cromaticamente e spingendosi alle soglie dell’astrazione: paesaggi onirici, densi di colori saturi, a effetto quasi tridimensionale. Sembra aver inventato “un nuovo filtro di photoshop”. Solo che questo lavoro è tutto in analogico.
In archivio abbiamo trovato diverse modalità di colorazione su carta fotografica, con diverse prove e diverse tecniche. Era uno sperimentatore, anima lenta che “provava” e poi faceva decantare. Si confrontava con questi suoi modi di lavorare con le persone della sua cerchia di amici e intellettuali. Passavano anche anni prima di esporle prima di aver deciso mentalmente di aver messo un punto ad un lavoro.
Questa ricerca sul colore è presente in mostra? Come avete deciso di costruire la mostra visto il lavoro inedito?
SG: Sì è presente. Io e Lisa Calabrese ci siamo chieste di fatto come costruire questa mostra. Eriberto Guidi è molto conosciuto per il suo bianco e nero e il suo lavoro più noto in assoluto è la Novizia (1968) pubblicato e ri-pubblicato moltissime volte dovunque.
Il lavoro sul colore nello specifico è anni luce distante da quello che è la seconda parte del suo percorso fotografico. Ci siamo dette: “riproponiamo il Guidi che il pubblico si aspetta oppure li coinvolgiamo e li stupiamo come ci siamo stupite noi quando siamo entrate in archivio e abbiamo trovato questo universo meraviglioso?”
Questa nostra considerazione non è solo merito nostro, nel senso che Guidi negli ultimi anni della sua vita voleva far conoscere questa parte del suo lavoro, voleva esporla. Quindi, anche sulla scia di questa sua richiesta, abbiamo costruito la mostra in un percorso nuovo.
Visto che Eriberto Guidi era così attaccato alla sua terra, in che modo la sua fotografia è arrivata anche all’estero?
SG: Luigi Crocenzi è centrale in questa storia perché era un punto di riferimento, aveva moltissimi contatti sia nazionali che internazionali. Crocenzi spedisce Guidi giovanissimo in Russia al Festival Mondiale della Fotografia nel 1957, un importante evento, al posto suo. Lì produce il suo primo lavoro e si fa conoscere.
Poi di strade ce ne sono state diverse. La pubblicazione su LIFE, importantissima, sui suoi paesaggi lo hanno portato poi ad una strada internazionale, dove si è fatto conoscere. È stato chiamato per esporre in diverse mostre.
Diciamo che da cosa è nata cosa e soprattutto è ritornato in Russia dove è stato esposto in mostre molto importanti, luogo in cui ha prodotto delle serie molto belle. Ha avuto diversi riconoscimenti e alcune sue opere sono permanenti in collezioni americane.
C’è una fotografia o un progetto del maestro Guidi che vi piace in particolare e a cui vi siete legate di più?
SG: a me personalmente piace moltissimo il lavoro che ha fatto sugli scacchi. Guidi è stato un autore che naturalmente raccontava con la fotografia e “Homo Ludens” rappresenta il racconto fotografico della maturità. A mio avviso ha tutte le caratteristiche e parametri del racconto fotografico, ci sono tutti gli elementi narrativi.
Questo lavoro è del 1991 e se dovessi scrivere un libro sulla fotografia di Eriberto Guidi, sarebbe il punto di partenza per spiegare il racconto perché è proprio l’apice del racconto fotografico di Guidi.
LC: del contesto in bianco e nero sono affascinata dalla Novizia e dai campi quadrati, non finirò mai di perdermi dentro a quelle fotografie. Però sono rimasta molto coinvolta – e la conferma è anche data dal pubblico che ha potuto vedere la mostra – dall’utilizzo del colore, dalle ultime sperimentazioni in questo senso.
”I colori del vento” mostrano un nuovo Guidi. Dopo aver visto in archivio le tantissime sperimentazioni su questa fotografia, ne sono rimasta affascinata e anche dall’ultimo lavoro “Il mio Sole” del 2014. Sono due lavori che tecnicamente mi hanno catturata profondamente, sono tutto un divenire, uno studio.
Purtroppo, per mancanza di spazio, per la mostra abbiamo dovuto escludere altri lavori inediti di Guidi. Ci sono degli scrigni di fotografia di Eriberto Guidi dove ha veramente spaziato dal concettuale al paesaggio, dal foto-racconto all’astratto. Ci sono tante tematiche che purtroppo non abbiamo potuto esporre. È anche questo il motivo per cui abbiamo voluto fare questa mostra tenendo delle parentesi aperte, lasciando a chi anche vorrà fare altre mostre, la possibilità di non rimanere ancorati al passato ma di aprire delle porte a questi inediti.
Dunque una mostra che racconta il Guidi conosciuto ma anche un Guidi nuovo.
LC: la mostra è stata pensata per lo spazio espositivo Terminal Mario Dondero. In 700 metri quadri abbiamo fatto una scelta precisa portando in mostra più di 80 fotografie con 8 fotografie per ognuna delle 11 sezioni organizzate. Per noi è stato molto difficile perché ci sarebbe voluto più spazio e anche più fotografie che avremmo voluto esporre. Inoltre, vista la situazione pandemica, chi vuole visitare la mostra può farlo anche grazie ad un virtual tour.
SG: la mostra di Eriberto Guidi, come le mostre che costruisco, sono basate su una metodologia che comprende alcuni punti. Il primo è la relazione dell’autore con la fotografia nazionale e regionale, il secondo quali erano le volontà dell’autore e il terzo punto “il cuore” ossia la mia scelta personale.
Questa è anche la filosofia che seguo quando scrivo di fotografia. Per questa mostra abbiamo lavorato un anno circa; come detto l’archivio di Eriberto Guidi è vasto e per studiarlo adeguatamente è stato necessario compiere un primo riordino.