Daido Moriyama: una conversazione con Filippo Maggia

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Tokyo Shinjuku, 13 maggio 2010.

Questo è un brano tratto dal catalogo Skira, in cui compare un’intervista al fotografo giapponese a cura di Filippo Maggia. 

 

Filippo Maggia: Il tuo vero nome è Hiromichi Moriyama: da dove deriva Daido?

Daido Moriyama: Il mio nome è composto da due caratteri: HIRO + MICHI. Hiro vuol dire “ampio” e michi significa “strada”, quindi letteralmente “ampia strada”. Ma questi due caratteri si possono leggere anche DAI e DO, da cui Daido. La lettura più naturale e immediata sarebbe quindi Daido e la gente quando vedeva scritto il mio nome pronunciava Daido, sebbene ogni volta io spiegassi: no, vi sbagliate: si legge “Hiromichi”. Poi, col tempo ho lasciato perdere e sono diventato Daido.

fm: Quindi è come se il destino fosse già stato scritto nel tuo nome, dato che il tema del viaggio è centrale nel tuo lavoro e di strada ne hai davvero percorsa tanta.

dm: Sì, infatti in qualche maniera deve esserci un collegamento, anche se a dire il vero preferisco le piccole strade a quelle grandi. In realtà, comunque, le strade sono il teatro di moltissime mie fotografie, in alcuni casi il vero soggetto, ed è quindi molto curioso il fatto che io mi chiami così: è proprio il nome giusto per me!

 

Daido Moriyama After School, Ishikawa, Japan, 1971 fotografia b/n, courtesy l’artista
Daido Moriyama
After School, Ishikawa, Japan, 1971
fotografia b/n, courtesy l’artista

 

fm: Tu sei nato nel 1938 e la tua infanzia corre parallela alla seconda Guerra Mondiale sino al suo drammatico epilogo: hai memoria di quel periodo?

dm: Ricordo molte cose della guerra, diversi avvenimenti e situazioni. Avevo 7 anni e frequentavo il primo anno di scuola elementare nel 1945: a quell’età non provavo affatto paura né percepivo come reale la devastazione della guerra: ricordi ne ho tanti, ma l’orrore non è tra questi.

fm: Hai conosciuto e lavorato con due grandi maestri giapponesi: Shomei Tomatsu ed Eikoh Hosoe, di cui sei anche stato assistente. Quale dei due senti più vicino?

dm: Sicuramente Shomei Tomatsu. Ricordo l’emozione che da subito provai nel vedere le sue fotografie. Il lavoro di Shomei Tomatsu è stato fondamentale nella mia formazione artistica, un vero punto di riferimento, mentre dal punto di vista tecnico il mio vero maestro è stato Eikoh Hosoe, è lui che mi ha insegnato a fotografare. La sua però è una ricerca che si manifesta in visioni molto drammatiche, con venature surrealiste, mentre quella di Shomei Tomatsu è più simile alla mia: un’indagine senza fine del mondo, una voglia inesauribile di raccontare le città, le strade e la gente che le popola.

 

Daido Moriyama Tokyo, 1978 fotografia b/n, courtesy l’artista
Daido Moriyama
Tokyo, 1978
fotografia b/n, courtesy l’artista

 

fm: A un certo punto, in piena giovinezza, hai letto “Sulla strada” di Jack Kerouac, che è stato per te un importante compagno di viaggio per molti anni. Mi incuriosisce questo tuo interesse per uno scrittore americano negli anni dell’occupazione, ma soprattutto mi incuriosisce come un giovane giapponese abbia potuto rimanerne colpito al punto da decidere di vivere facendo di quel libro una bibbia, letteralmente “mettendosi sulla strada”.

dm: In quegli anni leggevo molti libri e molte cose mi colpivano, ero estremamente ricettivo e aperto. Jack Kerouac aveva il dono di riuscire a trasmettere immagini fotografiche dei suoi viaggi attraverso la macchina da scrivere: questa sua capacità ha influenzato e condizionato il cammino che poi ho intrapreso. Quel che mi colpì molto di “Sulla strada” furono il tema della libertà e del vagabondaggio: il fatto di viaggiare per il gusto di farlo, senza una meta precisa. La realtà del viaggio è quel che io vivo spostandomi, non tanto un luogo dove arrivare.

fm: Nei libri degli scrittori beat il personaggio principale è quasi sempre un solitario, qualcuno che non ha una meta, vagabonda e, attraverso questo suo peregrinare senza fine, contribuisce alla creazione di mondi inventati. Una catena di esperienze che si succedono e che a loro volta producono immagini, proiezioni della realtà: queste immagini e la realtà alla fine sono la stessa cosa. Un procedimento che mi sembra molto simile alla tua opera fotografica.

dm: Sì, mi sento molto vicino a questo modo di sentire. Il mio interesse primario è quello di raccontare la strada e la società che la anima e rende viva. Narrare la realtà. Questo racconto però è mio: non è la telecamera del telegiornale che registra ciò che accade là fuori, ma Daido che ti racconta la strada che percorre.

[…]

 

Daido Moriyama On the Bed I, Tokyo, 1969 fotografia b/n, courtesy l’artista
Daido Moriyama
On the Bed I, Tokyo, 1969
fotografia b/n, courtesy l’artista

 

fm: Operi una selezione di frammenti di realtà attraverso la fotografia.

dm: La superficie esteriore che appare ai miei occhi costituisce uno stimolo che scatena un impulso, una reazione. Io cammino per le strade della città con la mia macchina fotografica costantemente bombardato da questi stimoli. Con la mia macchina riesco a produrre una reazione a questa molteplicità di sollecitazioni, rispondo loro. Si tratta di un continuo botta e risposta tra la realtà e Daido. Questa è la relazione che si viene a creare. In questo modo vedo, conosco, e partecipo alla vita sociale che mi circonda. Questo processo si ripete in continuazione ed è il mio modo di fare fotografia. Non è che io abbia in testa dei soggetti particolari, forme astratte o ben definite: la città e la società ne offrono in abbondanza, non credi? Penso che il mio fare fotografia consista nel catturare alcuni di questi soggetti all’interno del mucchio.

[…]

fm: C’è qualcosa che Daido non è mai riuscito a fotografare?

dm: Più che “non riuscire”, ci sono cose che non ho mai voluto fotografare. Ciò che non desidero ritrarre non riesco proprio a fotografarlo. Immagini descrittive o didascaliche, ad esempio. Non ne ho mai fatte e non vorrei proprio farne. Voglio fotografare ciò che anch’io non riesco bene a comprendere, quanto non riesco a spiegarmi: ciò che capisco posso tranquillamente tralasciarlo. Non ho intenzione di spiegare nulla con le mie foto. Chi le guarda è libero di interpretarle come vuole.

 

Daido Moriyama
Tokyo, Meshed Woman, 1977 fotografia b/n Collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Modena
Daido Moriyama
Tokyo, Meshed Woman, 1977
fotografia b/n
Collezione Fondazione Cassa di Risparmio di Modena

 

fm: La realtà appare a noi tutti come un mistero irrisolvibile che la fotografia può penetrare.

dm: Cosa si intende per mistero? La realtà proiettata davanti ai miei occhi è quasi tutta un mistero, per questo la indago. All’interno di questo enigma vi sono varie sfaccettature: l’erotismo, il dolore, il divertimento… Ci sono molti elementi, la cui totalità costituisce di certo un puzzle infinito. In ciò consiste la ragione della fotografia, nella sua capacità di rappresentare questo intrigo, ma senza il dovere, la responsabilità di giungere alla soluzione, di svelare l’arcano. Non è possibile comprendere, attraverso una come cento fotografie. É come un rompicapo. Ecco: più che un mistero mi sembra un labirinto. Camminare per la città è per me come camminare in un labirinto, ed è per questo che mi piace. Non voglio offrire risposte, preferisco lasciare irrisolta la questione, sospesa la domanda su ciò che abbiamo di fronte, anche dopo aver guardato le immagini.

fm: Vuoi dire allora che noi vediamo una possibile realtà, ma ne esistono molte…

dm: Fotografando una sola realtà se ne possono vedere tantissime. All’interno di una sola immagine coesistono diverse realtà. Questa è la magia della fotografia.

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